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Clausole put&call inserite in statuti o in patti parasociali e divieto di patto leonino
Maggio 2016
Sono ricorrenti ed usuali nella prassi contrattuale clausole cd. put&call, che
determinano le condizioni, anche patrimoniali, dell’exit di una delle parti
contraenti, sulle quali si registrano posizioni variegate, e da ultimo nuovi arresti
giurisprudenziali.
In tema di opzioni put, e di loro legittimità laddove inserite in uno statuto ovvero
in patti parasociali, giurisprudenza e dottrina hanno da sempre evidenziato il
pericolo di un contrasto di esse con l’art. 2265 c.c., osservando che tali clausole
potrebbero violare il divieto di patto leonino laddove venissero pattuite al solo
scopo di evitare ad una delle parti la partecipazione alle perdite (ovvero, anche,
agli utili).
Al di là di schematismi e affermazioni di principio, le opzioni put costituiscono
uno strumento utile al fine di disciplinare già ex ante le modalità di uscita (dalla
società, ovvero dal rapporto) di uno dei paciscenti; che fin dal principio venga
regolata l’exit, e con essa gli esborsi che ciascuna parte, rispettivamente, potrà e/o
dovrà effettuare, è buona e utile pratica, che permette di evitare contrasti e
potenziali controversie.
Il divieto di patto leonino deve vigere per quelle clausole che prevedano
un’opzione put&call che sostanzialmente elimini alla radice e in modo costante,
in capo ad un socio, il rischio di impresa, e che siano “fini a sé stesse”, ovvero che
non abbiano altro scopo se non quello di escludere un socio dalla partecipazione
alle perdite (o anche agli utili).
Diverso è il punto per quelle clausole che siano inserite in un più ampio contesto
“meritevole di tutela” e che abbiano, allora, una funzione più articolata e
complessa, nella generale economia dell’accordo tra le parti: al fine di verificare
la tenuta della clausola di opzione, è necessario valorizzare l’insieme del
patto/contratto nel quale è inserita e tenere conto della funzione che tale clausola
ha nell’economia generale del rapporto tra le parti.
Invero, raramente una clausola di opzione sarà fine a sé stessa: il più delle volte
viene collegata, quanto meno, ad altra opzione di acquisto del medesimo
pacchetto azionario e, dunque, non potrebbe mai essere considerata gratuita;
peraltro, neppure si può sostenere che in una clausola contenente opzioni
reciproche difetti la sinallagmaticità, posto che a fronte dell’obbligo/diritto di una
parte sta un corrispondente (in negativo) obbligo/diritto dell’altra parte.
Dunque, se la clausola d’opzione è inserita in un contesto più ampio, da valutare
caso per caso, essa non viola il divieto di patto leonino, poiché si inserisce nella
più generale autonomia di negoziazione delle parti che prescinde e assorbe la
specifica pattuizione di compravendita delle azioni.
Con particolare riguardo alle clausole put inserite in statuto, poi, il rischio
ventilato è che alcuni soci possano godere dell’esclusione dalle perdite, e ciò
contrasterebbe con il principio della correlazione investimento-rischio, base e
fondamento del contratto di società. E’ necessario, tuttavia, operare un distinguo:
un conto è il piano societario “interno”, per il buon funzionamento del quale è
effettivamente necessario che una correlazione tra rischio di impresa e
partecipazione vi sia; altra cosa è il piano oggettivo della circolazione delle azioni,
che è profilo indipendente e al quale va riconosciuta una causa autonoma, distinta
da quella inerente la gestione della società, anch’essa meritevole di tutela.