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Segnalazioni

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Il diritto di recesso nei rapporti continuativi o differiti tra perpetuità del vincolo e canone di buona fede

Gennaio 2013

Il mutamento del contesto globale di riferimento generato dalla crisi economicofinanziaria ha sempre più evidenti e tangibili ricadute all’interno dei rapporti giuridici tra privati e/o imprese, nei quali spesso emerge l’esigenza di un riassetto delle condizioni negoziali dovuta alla modifica degli interessi individuali sottesi ad impegni contrattuali assunti in tempi di maggiore stabilità economica.
In quest’ottica, il recesso, inquadrabile tra le “cause ammesse dalla legge” per lo scioglimento del vincolo contrattuale ad iniziativa di una sola parte (art. 1373 cod. civ.) ed utilizzato nella prassi quale fisiologico strumento di sistemazione degli interessi contrattuali, si configura come un diritto potestativo riconosciuto dalla legge o dal contratto in capo ad una parte contrattuale e il suo esercizio consente la liberazione da un impegno negoziale non più gradito (c.d. recesso di pentimento e recesso di autotutela) ovvero assunto senza previsione di un termine di durata o a tempo indeterminato (c.d. recesso determinativo).
In caso di recesso convenzionalmente pattuito nel regolamento negoziale, in particolare, la giurisprudenza evidenzia, in modo sempre più netto ed insistente, che il suo esercizio non può configurarsi attraverso modalità concretamente irragionevoli ed arbitrarie, proprio in forza del sopramenzionato principio di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto [cfr., ex plurimis, Cass., 16 ottobre 2003, n. 15482].
La violazione di tale generale canone di condotta costituisce già di per sé inadempimento, da cui l’obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato alla parte receduta. Infatti, “disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato”. Invero, l’abuso del diritto, ravvisabile ogniqualvolta, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata “la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede”, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, “delinea l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore” [cfr. Cass., 18 settembre 2009, n. 20106].
Ne consegue che il sindacato giurisdizionale sul regolamento contrattuale predisposto in autonomia dai privati potrà spingersi a vagliare le effettive finalità che hanno indotto una parte ad esercitare un diritto convenzionalmente pattuito in suo favore; infatti – si precisa – ciò non costituisce un’indebita ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacché ciò che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso.

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